27.1.08

Tullia Zevi: «Quel giorno del 1938 in cui scoprimmo di essere diversi»

Alla vigilia della Giornata della memoria del 27 gennaio e nell'anniversario delle Leggi razziali varate dal fascismo.
A colloquio con una delle grandi figure dell'ebraismo italiano, prima donna nel ruolo di presidente dell'Ucei per quindici anni


intervista a cura di Guido Caldiron

«Quel giorno abbiamo scoperto la diversità. Cosa volesse dire essere considerati e apparire come "diversi". E direi che abbiamo misurato sulle nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci è entrata nella pelle». Tullia Zevi ricorda così l'estate del 1938 e il momento in cui apprese che il Regime fascista aveva promulgato le leggi razziali. Per lei, poco più che maggiorenne, la vacanza che stava trascorrendo in Svizzera con la famiglia si tramutò così nell'inizio di un lungo esodo forzato che l'avrebbe portata, fino alla fine della guerra, prima a Parigi e quindi negli Stati Uniti.
E' stata la prima donna a diventare presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che ha guidato per oltre quindici anni. Ha conosciuto e frequentato molti antifascisti, partecipato alla vita del Partito d'Azione ed è stata legata da una profonda amicizia con Amelia Rosselli. Giornalista, ha seguito per la stampa americana il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti e più tardi quello contro Adolf Eichmann che si è svolto a Gerusalemme, ed è stata per molti anni corrispondente del quotidiano israeliano Ma'ariv . Tullia Zevi non ha mai smesso di animare la vita culturale e politica italiana continuando a rappresentare un punto di riferimento per l'ebraismo e per la cultura laica e progressista.
La sua storia l'ha affidata recentemente a Ti racconto la mia storia (Mondadori) un libro intervista realizzato da sua nipote Nathania Zevi che attraversa oltre settant'anni di storia a partire dalle Leggi razziali dell'estate del 1938. Alla vigilia della Giornata della Memoria che ricorda il 27 gennaio la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau avvenuta nel 1945 le abbiamo chiesto di riflettere per Liberazione sul significato di questa data e sul valore della memoria storica per combattere il razzismo che ha attraversato l'Europa e l'Italia e che torna oggi nel dibattito pubblico e nella nostra società.

Signora Zevi, ricordando l'anniversario della liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945, il Presidente Napoltiano ha spiegato come la strada per i campi nazisti si è aperta con le Leggi razziali del 1938. Come ricorda quel momento?
Non potrò mai dimenticare l'estate del 1938. Ero in vacanza in Svizzera con i miei genitori e i miei tre fratelli. Seduto davanti a me, mio padre leggeva i giornali italiani a voce alta, al tempo stesso sconvolto e incredulo, Quasi non credeva a ciò che stava leggendo: "Ma che cos'è questa storia, vogliono farci fare la fine dei topi?". La sensazione di paura e di pericolo cominciò a insinuarsi in me: dovevo temere che mi potesse accadere qualcosa solo perché ero ebrea. Ero "diversa" e per questo ero in pericolo. Non c'era soltanto la sensazione di essere emarginati, ma quella ancora più terribile di non essere proprio considerati degli esseri umani.

All'epoca, pur costretta all'esilio, come percepì la reazione della società italiana alle Leggi razziali?
All'epoca avevo l'impressione che nel resto della società non ci fosse percezione di quanto stava accadendo, come se chi non era direttamente coinvolto non si rendesse conto dell'impatto concreto di quelle decisioni, di quelle norme, sulle vite di tante persone. Credo di poter dire che il concetto di "razza" non era radicato nella cultura italiana e questo salto improvviso lasciò molti quasi increduli. Certo il Fascismo esisteva già da molti anni e le guerre in Africa avevano già mostrato tutta la brutalità del colonialismo italiano, ma con le Leggi razziali si aprì una nuova profonda ferita nella nostra società.

Dopo la guerra lei rientrò nel nostro paese solo nel 1946. Quale realtà trovò nella comunità ebraica, una delle più antiche d'Europa?
Era una realtà sconvolta, ferita dal marchio di diversità che le leggi razziali avevano cercato di imporle. Gli ebrei erano e si sentivano italiani. La mia famiglia era italiana da sempre e non avremmo saputo dove trovare altrove la nostra origine. Eravamo talmente integrati, ci sentivamo a tutti gli effetti "oriundi" che quando si aprì questa sorta di enorme spartiacque tra noi e il resto della società fu prima di tutto una terribile e drammatica sorpresa. L'ebraismo era talmente radicato nella cultura italiana che non si riusciva nemmeno a immaginare ciò che invece era accaduto. Certo, prima delle Leggi razziali e di Auschwitz c'erano state le misure contro gli ebrei assunte dalla Germania e l'intera politica di Hitler fin dall'inizio. Quindi nel 1946 trovai le tracce visibili di questa ferita e del dolore che aveva lasciato dietro di sé.

A tanti anni di distanza da quella tragedia nel nostro paese c'è chi arriva a parlare di popoli geneticamente propensi a delinquere o di altri che non si possono integrare. Che effetto le fanno queste parole?
Il razzismo come il nazionalismo sono come virus da quali ci si deve difendere. Sempre. L'unica razza che conosco è la razza umana. E l'unico orizzonte che conosco e che giudico possibile è quello del confronto e dell'integrazione. Perciò quando nella civilissima Europa, la stessa nella quale si è realizzata la Shoah, sento che qualcuno torna a inoculare il veleno della razza non posso che preoccuparmi. Ma torno ancora una volta a essere vigile. Credo che ciascuno di noi debba farsi custode del grado di civiltà espresso dalla società in cui vive. Dobbiamo vigilare perché la società in cui viviamo sia davvero multiculturale, perché la diversità non diventi un marchio infamante.

Quella diversità che veniva agitata, e viene agitata ancora oggi, dai razzisti come un pericolo può diventare perciò anche il luogo dell'incontro, della convivenza?
Il concetto di diversità deve essere sviluppato e accolto. La consapevolezza delle diversità deve rimanere ma come elemento di libertà dell'individuo. Sono però la coesistenza e l'integrazione delle diversità che vanno curate e sviluppate. E in un certo senso arriverei a dire anche amate. Credo che una società civile metta al centro della sua esistenza l'integrazione armonica delle diversità che si nutrono l'un l'altra e insieme crescono.

Da questo punto di vista quale può essere oggi il significato della Giornata della memoria?
Noi ebrei sopravvissuti alla Shoah abbiamo dovuto imparare a coesistere con questa ferita. Ma la ferita si riapre ad ogni sollecitazione. Ci sono cose nella vita che non vanno dimenticate e non per un desiderio di vendetta, ma perché la conoscenza del passato è l'unico antidoto per la tutela dei diritti umani. E nuovi campi di concentramento possono tornare a esistere dovunque se i diritti di tutte le minoranze non trovano un terreno fertile sul quale attecchire. Per questo credo si possa affermare che gli ebrei ricoprono lo scomodo ruolo di cartina di tornasole e coscienza critica della democrazia.

(tratto da Liberazione del 26/01/2008)

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