24.4.08

25 aprile, festa italiana

Emiliano Sbaraglia, AprileOnLine.info 24 aprile 2008, 18:19

Come troppo spesso accade negli ultimi anni, celebrare la ricorrenza della Liberazione dall'occupazione nazi-fascista diviene motivo di contrapposizione politica, soprattutto quando il centrodestra governa o, come ora accade, si appresta di nuovo a governare. Intervista al professor Govanni De Luna, storico contemporaneo dell'Università di Torino, città nella quale manifesteranno anitifascisti e "grillini" dell'anti-politica



Giovanni De Luna insegna Storia contemporanea presso l'Università di Torino, e collabora con "La Stampa" e "Tuttolibri", oltre che essere spesso presente nel dibattito pubblico attraverso interventi in trasmissioni radiofoniche e televisive. Delle sue numerose pubblicazioni ne ricordiamo soltanto alcune: "Donne in oggetto. L'antifascismo nella società italiana" (1995), "La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo" (2004), "Storia del Partito d'Azione" (2006). Inoltre, per Einaudi ha curato "L'Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, in tre volumi e quattro tomi" (2005-2006). Gli abbiamo rivolto alcune domande riguardanti l'importanza della ricorrenza del 25 aprile nell'attuale scenario culturale e politico nazionale, e un commento alla particolare situazione che per l'occasione coinvolge Torino, che ospiterà in due delle sue piazze la celebrazione tradizionale della Liberazione e la manifestazione organizzata da Beppe Grillo per un nuovo "V-day".

Professor De Luna, che significato assume nella situazione politica e culturale italiana attuale una celebrazione come quella del 25 aprile?
Ritengo che sia molto importante festeggiarla in questo momento, per ribadire una identità nazionale che continua ad essere presente. In questi ultimi anni alcuni studiosi hanno infatti individuato un percorso nazionale, che dall'8 settembre '43 passa per il 25 aprile '45 e il 2 giugno '46, arrivando al 18 aprile del 1948. Dopo l'otto settembre, in effetti sembra delinearsi una sorta di circolo virtuoso che conduce il 25 aprile alla liberazione di un popolo, popolo che il 2 giugno, con voto pebliscitario, certifica la vittoria e la nascita della Repubblica italiana, e il 18 aprile '48 stabilizza il suo quadro politico e sociale, anche se in termini per molti aspetti di carattere conservatore. Riconoscere il 25 aprile come fondamentale passaggio di unità nazionale significa dunque riconoscere la sofferenza collettiva di un popolo che è riuscito a costruire una propria identità.

A Torino sarà una giornata particolare: antifascisti da una parte, antipolitica dall'altra. Cosa ne pensa di questa singolare concomitanza?
Guardo con molto favore a queste due piazze, anche perché a Torino la Liberazione fu vissuta proprio come la possibilità di tornare finalmente nelle piazze. Il 25 aprile è il 25 aprile, dunque moltiplicare le presenze, e avere piazze piene anche se tra loro diverse va benissimo. D'altra parte, sono uno di quelli che per celebrare questa ricorrenza ha già partecipato nelle occasioni precedenti a piazze tra loro diverse, da quelle democristiane a quelle comuniste, per citare due opposti; e in ogni circostanza mi sono sempre sentito a mio agio.

In questi giorni dalle colonne del "Corriere" Ernesto Galli della Loggia ha risposto a un suo articolo sul "fascismo derubricato", da lei scritto su "La Stampa" poche settimane or sono, ricordando che la deviazione verso una visione del fascismo come antisemitismo tout court è stata una scelta deliberata, nel corso degli anni settanta-ottanta, di una certa storiografia di sinistra. Lei cosa risponde?
Nell'articolo il dato che mi ha colpito di più è stato questo accentuare la tesi delle leggi razziali, che significa annullare il resto delle altre cose fatte dal regime totalitario. E una chiave di lettura del genere può trasformarsi facilmente in un alibi per la destra, che in questo modo riconosce l'errore delle leggi razziali senza fare i conti con tutto quanto il resto. Limitazione sulla quale credo concordi anche Della Loggia, che però nel seguito del suo scritto mi pare si renda protagonista di un corto circuito, nel momento in cui afferma che questa "virata" della sinistra verso una visione esclusivamente antisemita del fascismo sia un'operazione tesa a far dimenticare le colpe del comunismo. Qui ho maggiori perplessità nel seguire il suo ragionamento, anche perché ci sono state stagioni della storiografia in cui piuttosto di quel periodo si mettevano in evidenza gli scioperi del '43, la lotta operaia, o ancora interi comparti di resistenza civile, la deportazione di donne e bambini.

In questi giorni con il quotidiano "l'Unità" è possibile acquistare il libro "La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano" di Mirco Dondi, un lavoro che indaga sulle violenze perpetrate nel nostro Paese successivamente alla Liberazione. Un passo in avanti in direzione di una analisi completa di quanto accaduto in quel periodo?
Certamente sì, soprattutto perché quello di Dondi è uno studio molto serio, di indagine storica, che si differenzia di gran lunga da certe operazioni che invece su questo tema hanno deliberatamente speculato.

Vengono in mente i libri di Giampaolo Pansa...
Certo, perché i libri di Pansa trattano lo stesso tema, ma non sono volumi scientifici di ricerca sull'argomento, quanto piuttosto dei pamphlet di velato carattere ideologico, utili ai fatturati del mercato editoriale. Ed è certamente un merito de "l'Unità" che uno studio serio come quello di Dondi venga fatto conoscere oltre la cerchia degli specialisti di settore.

Alcuni rappresentanti della prossima maggioranza di governo, nei giorni precedenti e successivi le recenti elezioni politiche, non hanno nascosto l'intenzione di porre mano ai manuali di storia, proprio per "correggere" quei capitoli riguardanti la fase resistenziale '43-'45. In qualità di docente universitario di storia contemporanea che opinione ha in merito?
Dico che sono sciocchezze, e che queste persone vanno prendendo lucciole per lanterne, soprattutto perché oramai viviamo un'epoca nella quale circa l'80% delle informazioni conoscitive, anche per questi argomenti, le giovani generazioni di oggi le recepiscono attraverso canali decisamente diversi rispetto ai classici manuali didattici, televisione e cinema su tutti, che determinano un senso comune molto più dei libri. Le faccio un esempio. Nell'università dove insegno qualche anno fa abbiamo distribuito un questionario agli studenti, all'interno del quale una domanda chiedeva per quanto tempo sia stato al governo il Pci nella storia repubblicana: zero, dieci, quindici o trenta anni. La maggior parte ha risposto trenta. E questa non è certo un'indicazione riscontrabile sui manuali di storia...

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